La traduzione di un testo è un lavoro che appare, a molti, infinitamente meno complesso di quanto in realtà non sia. Noi stessi, sovente, ci sentiamo domandare dai nostri clienti perché si dimostri necessario impiegare dei traduttori professionisti, spesso con più di vent’anni di esperienza, per svolgere un lavoro che, ai loro occhi, potrebbe essere condotto con la stessa esattezza e con risultati paragonabili anche da un giovane laureato in lingue – o, addirittura, dal loro commerciale che parla la lingua in questione.
La risposta, del resto, è meno semplice di quanto possa sembrare, e per essere capita richiede di riflettere in modo non banale su cosa sia, e su come funzioni, una lingua. Ma per cercare di condurre questa riflessione in maniera meno seriosa, proveremo a partire facendo qualche esempio di cosa accade quando si traduce avendo sì un’ottima conoscenza di una lingua… ma non tutte le altre competenze necessarie a svolgere il mestiere di traduttore.
Scomodiamo uno scrittore di fama riconosciuta, e anche celebre traduttore di opere dall’inglese - un esempio su tutti, Moby Dick di Melville: Cesare Pavese. E scomoderemo proprio lui perché si tratta di una figura che nessuno potrebbe mai scontare come “poco capace”, visti i suoi meriti letterari. Nella traduzione di Pavese di “Riso Amaro” edita da Feltrinelli nel 1932, potremo leggere che i due protagonisti chiudono un pasto romantico godendosi un buon Whiskey marca “Luna del Kentucky.”
Nulla di strano? Qualcosa sì: il Whiskey “Luna del Kentucky” non esiste, né è mai esistito neppure come marca immaginaria nella mente di Sherwood Anderson mentre scriveva il testo originale, “Moon Whiskey”, che infatti significa “Whiskey distillato clandestinamente ”. Con questa informazione in mente, l’equivoco è facile da capire: ma che messaggio può darci questo errore? In realtà, è un indizio semplice di un fatto profondo e importante: una lingua è sempre più della somma del suo lessico e della sua grammatica. Una lingua è l’espressione di una cultura, e questa viene veicolata anche da una serie di espressioni idiomatiche che, se fraintese come può facilmente capitare a chi la parli e la comprenda anche benissimo, ma non si occupi di tradurla regolarmente, possono addirittura portare a risultati finali piuttosto comici.
Tradurre è interpretare, e interpretare – qui sta il problema – è soprattutto, e prima di tutto, capire. E capire richiede appunto di conoscere una cultura. Perché al nostro mal di testa basta un’aspirina, mentre i detective americani dei libri Noir si mettono sempre a letto dopo averne prese un paio? Sono tanto delicati da avere bisogno di una dose doppia? No: semplicemente, le aspirine commercializzate negli Stati Uniti sono mezze dosi rispetto a quelle del mercato Europeo. E allo stesso modo, sebbene sia normalissimo per noi dire che una località abbastanza vicina è “a una decina di chilometri” di distanza, in inglese non si usano né decine né chilometri, ma dozzine e miglia – il che richiede un po’ di ricostruzione della frase, se non vogliamo che improvvisamente la località si trovi alla distanza quasi doppia di una dozzina di miglia, ossia di diciotto chilometri. Solo un traduttore esperto, che conosca davvero il modo di esprimersi sia della lingua da cui parte che di quella in cui deve volgere il testo, è in grado di produrre un risultato di traduzione che sia allo stesso tempo corretto, completo, scorrevole, e naturale.
Problemi letterari, che pensate non possano toccare il mondo, ben più concreto, degli affari? Salutiamoci con un esempio preso di peso dal marketing di Pepsi, e nello specifico dalla traduzione del suo slogan storico “Brings you back to life”, “Ti rimette al mondo”. Un’incauta traduzione in lingua mandarina per il lancio sul mercato cinese ha prodotto il risultato “Pepsi riporta i tuoi antenati in vita dalla tomba”… con un effetto decisamente meno rassicurante e più horror delle intenzioni originali!
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